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Barocca, urbanistica

Palermo, veduta da piazza Vigliena o dei Quattro Canti in una incisione da A. Leanti (Lo stato presente della Sicilia, Palermo, 1761).
Palermo, veduta da piazza Vigliena o dei Quattro Canti in una incisione da A. Leanti (Lo stato presente della Sicilia, Palermo, 1761).

Definizione

Se con il termine “urbanistica” si intende tutto quanto attiene l’assetto di un’area insediativa e le sue previsioni di sviluppo, l’aggettivo “barocca” ne definisce l’ambito storico-culturale, con riferimento ai modelli che si sviluppano prevalentemente negli Stati europei governati da regimi assolutistici, fra l’inizio del Seicento e la metà del Settecento.

La ricerca di definizioni riferite in maniera più specifica all’ambito stilistico entro cui tradizionalmente si è sviluppato il barocco nelle “tre arti del disegno” (pittura, scultura e architettura) non è praticabile né appropriata; nel senso che il predominio di linee curve e superfici concavo-convesse che caratterizza tali arti non si ritrova nel disegno dei coevi tessuti urbani che, invece, vedono la diffusione di strade rettilinee di inconsueta lunghezza e precisione geometrica: i rettifili.
L’urbanistica barocca è in grado di coniugare con estrema efficacia, anche retorica, le scelte di dettaglio scultoreo-decorativo a quelle, di più ampia scala, attinenti all’architettura e alla città: se nella ricchezza del dettaglio si materializza una sorta di naturalismo estremo con valenze animiste – che, nella trasmutazione di una scogliera in lesena, di un telamone in voluta, di una nuvola in figura umana, ipotizza e finge la circolarità dei cicli naturali e la presenza di un’anima comune a tutti gli elementi – così, d’altro canto, nella regolarità e lunghezza delle nuove strade si esprime la ricerca di una unità figurativa che impone le proprie leggi (dinamiche e policentriche) a tutta la città, estendendosi talvolta, attraverso il parco e la strada alberata, anche al territorio circostante. Con ciò la sintesi barocca tra architettura e città è conseguita, non già per assimilazione stilistica, bensì per complementarità figurativa, o addirittura per contrapposizione (come nelle città della val di Noto, ricostruite dopo il terremoto del 1693, in cui al movimento barocco delle architetture maggiori fa riscontro l’estrema regolarità della maglia urbana).

Definizione

Se con il termine “urbanistica” si intende tutto quanto attiene l’assetto di un’area insediativa e le sue previsioni di sviluppo, l’aggettivo “barocca” ne definisce l’ambito storico-culturale, con riferimento ai modelli che si sviluppano prevalentemente negli Stati europei governati da regimi assolutistici, fra l’inizio del Seicento e la metà del Settecento. 
La ricerca di definizioni riferite in maniera più specifica all’ambito stilistico entro cui tradizionalmente si è sviluppato il barocco nelle “tre arti del disegno” (pittura, scultura e architettura) non è praticabile né appropriata; nel senso che il predominio di linee curve e superfici concavo-convesse che caratterizza tali arti non si ritrova nel disegno dei coevi tessuti urbani che, invece, vedono la diffusione di strade rettilinee di inconsueta lunghezza e precisione geometrica: i rettifili.
L’urbanistica barocca è in grado di coniugare con estrema efficacia, anche retorica, le scelte di dettaglio scultoreo-decorativo a quelle, di più ampia scala, attinenti all’architettura e alla città: se nella ricchezza del dettaglio si materializza una sorta di naturalismo estremo con valenze animiste – che, nella trasmutazione di una scogliera in lesena, di un telamone in voluta, di una nuvola in figura umana, ipotizza e finge la circolarità dei cicli naturali e la presenza di un’anima comune a tutti gli elementi – così, d’altro canto, nella regolarità e lunghezza delle nuove strade si esprime la ricerca di una unità figurativa che impone le proprie leggi (dinamiche e policentriche) a tutta la città, estendendosi talvolta, attraverso il parco e la strada alberata, anche al territorio circostante. Con ciò la sintesi barocca tra architettura e città è conseguita, non già per assimilazione stilistica, bensì per complementarità figurativa, o addirittura per contrapposizione (come nelle città della val di Noto, ricostruite dopo il terremoto del 1693, in cui al movimento barocco delle architetture maggiori fa riscontro l’estrema regolarità della maglia urbana).

Derivazione e processo formativo

Le nuove vie e le nuove piazze della città barocca, liberate dalle tortuosità degli impianti medievali, forniscono già dal Cinquecento, ma con particolare efficacia nel corso del secolo successivo e dei primi cinquant’anni del Settecento, una scena ampia in cui l’edificio può fare bella mostra di sé per esibirsi come attore protagonista nel gran teatro della città. 
Nell’origine e nello sviluppo di questo processo, la capitale pontificia riveste un ruolo di primaria importanza. All’inizio del Seicento Roma era caratterizzata da rettifili di lunghezza assolutamente inconsueta per le città dell’Occidente cristiano che attraversavano, o piuttosto lambivano, i margini dell’abitato fino a raggiungere le zone circostanti, quasi inedificate, ma ricche di antiche emergenze monumentali, comprese all’interno della cinta aureliana. Questo reticolo viario, anticipato già da alcune realizzazioni quattrocentesche, si era formato soprattutto nel corso del Cinquecento, assumendo infine una eccezionale estensione; si pensi alle realizzazioni di inizio secolo (come via Giulia e via della Lungara), o a quelle dei decenni successivi (che danno luogo, fra l’altro, alla definizione del Tridente), fino a quelle della seconda metà del secolo che vanno dalla via Pia, tracciata lungo il crinale del Quirinale a est dell’area più densamente abitata compresa nell’ansa del Tevere, fino ai nuovi rettifili sistini. Tutte opere che finiscono per trovare la più adeguata delle conclusioni nell’invenzione dell’obelisco quale protagonista della scena urbana: perno su cui convergono molteplici strade (e un numero tendenzialmente infinito di punti di vista) che, a sua volta, materializza la nota metafora della città “in syderis formam”. 
All’inizio del Seicento questo sistema, perfettamente impostato nella sua trama generale, urbanistica, era ancora privo, in genere, di una definizione architettonica. Quella trama si materializzava per lo più nelle aree periferiche attraverso la lunga teoria dei muri di cinta che distinguevano il tracciato pubblico della strada, o della piazza, da quello privato delle aree interne destinate all’edificazione (dette clausure), definendo così un sistema articolato e complesso che attendeva solo di essere completato da nuovi fabbricati, condizione che spiega lo straordinario sviluppo barocco della città durante il Seicento e la prima metà del Settecento. Al riguardo è stato acutamente osservato da Paolo Portoghesi come la grande scala dei nuovi rettifili produca una dilatazione dello spazio urbano – congruente con quella “poetica della lontananza che permea di sé certa contemporanea pittura di paesaggio” – per veicolare, infine, una sorta di messa in scena dell’infinito cui “si collega strettamente l’assurgere di valori ottici a un ruolo strutturale nell’opera artistica”; nel nuovo contesto “il profilo sinusoidale che orienta la massa muraria lungo direttrici diagonali[…] diventa modulo determinante di una nuova scena urbana, in cui la strada si anima di episodi molteplici che ne contestano il valore di inerte corridoio compreso tra quinte complanari”. Le nuove piazze, luoghi di convergenza di più strade, danno luogo a un impianto policentrico che ben si adatta alla varietà delle nuove architetture. La città barocca si arricchisce di nuovi poli urbani complessi e policentrici, come il berniniano colonnato di San Pietro (paradigma della subordinazione della scena architettonica e urbana alla mutevolezza di una percezione dinamica e alle leggi della obliquazione), come piazza Navona o come le settecentesche Scalinata di Trinità dei Monti e Fontana di Trevi: opere in cui la varietà dei motivi scultorei e delle superfici inflesse, sostenuta dal rigore della composizione architettonica, dà luogo a un originalissimo connubio di motivi complementari, misurati dal senso geometrico o, piuttosto, animati dalla naturalezza del gesto.
Partendo da simili presupposti Roma diviene una sorta di capitale del barocco, nonché il principale centro di elaborazione artistico-culturale dell’Occidente cristiano. Papi di notevole carisma – come Paolo V Borghese, Urbano VIII Barberini, Innocenzo X Pamphili, Alessandro VII Chigi, fino ai settecenteschi Clemente XII Corsini, Benedetto XIV Lambertini o anche Pio VI Braschi (ultimo dei pontefici del secolo, deposto dall’armata francese nel 1798) – si impegnano con successo nell’opera di completamento del piano sistino. Ne deriva una città unica per la sistematicità con cui la grande scala, scandita dal reticolo viario, colloquia con le scale inferiori, in un percorso circolare che raggiunge l’architettura, la scultura e il più minuto degli elementi di dettaglio, per poi risalire all’origine. 
Non stupisce il fatto che un simile impianto urbano sia unanimemente apprezzato, ponendosi come modello ai regnanti dei Paesi europei, generalmente interessati alla celebrazione della propria autorità nella grande scena della città. 
Valga, ad esempio, il caso di Palermo dove all’inizio del Seicento si definisce uno straordinario polo urbano, nella nuova piazza Vigliena o dei Quattro Canti (realizzata a partire dal 1609); con essa è fissato il baricentro della città nell’intersezione della “croce di strade”, formata dall’antico asse del Cassaro e dalla nuova via Maqueda, da cui può essere colto per intero il dispiegarsi della scena urbana nelle sue quattro direzioni principali. Straordinaria metafora cristiana che, nel rimodellare l’assetto della città in modum crucis, espunge da essa le più evidenti testimonianze della facies precedente, fortemente condizionata dai modi dell’urbanistica islamica. L’intervento rivela la propria polivalente ricchezza, accogliendo anche altre suggestioni, come, ad esempio, l’interesse a subordinare la lettura della città a un sistema di coordinate polari, il riferimento alla simbologia solare e l’assimilazione fra piazza e porto (approdo della cristianità, della fede ecc.); sotto quest’ultimo aspetto si collega ad altri interventi a venire, come il colonnato berniniano di San Pietro a Roma che, a sua volta, rimanda al piano di ampliamento della tedesca Kassel delineato dall’architetto francese Paul du Ry nel 1688. Quest’ultimo esempio, concepito per stabilire stringenti relazioni tra la città esistente e le aree suburbane, fornisce una chiara testimonianza della adattabilità dei modelli urbani barocchi a quelle parti del territorio che, per non essere ancora interessate dall’espansione edilizia, presentavano una scarsissima resistenza al cambiamento e quindi una facile adattabilità ai nuovi impianti. Per questo il nuovo linguaggio dell’urbanistica barocca, nel modo in cui è stato definito, si presta magnificamente al disegno di parchi e giardini all’italiana. Valga al riguardo il precedente definito dalla villa di Sisto V a Roma (che fornisce una puntuale replica alla piccola scala sia al modello del “tridente” che a quello della “croce di strade”), come quello dei giardini del nuovo palazzo pontificio del Quirinale, ma valgano anche gli esempi di Versailles, ampliata per volontà di Luigi XIV entro il 1688 (nelle sue fasi essenziali), e di Karlsruhe pianificata da Jacob Friedrich von Betzedorf per il margravio Karl Wilhelm di Baden Durlach dal 1715; opere, queste, nelle quali l’arte del giardino adotta soluzioni analoghe a quelle proprie dell’urbanistica barocca, ma in un contesto diverso, la cui consistenza vegetale consente la sperimentazione di nuove soluzioni in maniera molto più ampia, ricca e veloce di quanto potesse consentire il tessuto edilizio.
L’urbanistica barocca, nel modo in cui è stata qui definita, si adatta naturalmente alla manifestazione del grand goût, della magnificenza architettonica, retoricamente esibita nel gran teatro della città; quindi, con riferimento alla divaricazione che si produce nei principali Paesi europei sei-settecenteschi fra assolutismo e liberalismo, è evidente come essa si adatti meglio e naturalmente alla celebrazione dei valori attinenti al primo termine di tale contrapposizione. 
Il piano di Londra redatto da sir Christopher Wren, dopo il grande incendio del 1666, come la vicenda che a esso si collega, costituisce una testimonianza quanto mai efficace sulla forza di un simile cortocircuito fra sistemi politico-economici e linguaggio urbanistico. Il progetto, sostenuto da un sovrano come Carlo II che conosceva bene l’ambiente di corte francese, presso cui aveva a lungo soggiornato, si basa su un ampio reticolo di viali polarizzato sul Royal Exchange e sulla cattedrale di Saint Paul, edifici che, evidentemente, erano intesi come celebrazione del potere economico-finanziario e di quello ecclesiastico, presentati nella loro versione alta, sovra-individuale, connessa, cioè, più alle istituzioni centrali dello Stato che alla vita quotidiana dei cittadini. In ragione di ciò il Parlamento inglese ha la forza di opporsi al piano e di approvare tempestivamente uno strumento più democratico, quale l’Act for Rebuilding the City, che sostituisce alle precostituite geometrie del piano le logiche, definibili in progress, di un programma di carattere essenzialmente normativo. 
Se nel caso della ricostruzione di Londra la contrapposizione fra modello barocco e procedure attuative di diversa natura, tendenti alla fornitura di servizi civili piuttosto che alla celebrazione del potere, è tanto netta da assumere un carattere emblematico, nella maggioranza degli altri interventi coevi le relazioni fra tali logiche sono meno stridenti. Per tal via nel corso del Settecento si verifica una sorta di progressiva metamorfosi dei modelli barocchi. Teatro di questi cambiamenti è soprattutto la provincia francese dove gli intendenti reali, le cui competenze spaziavano in molteplici campi dell’amministrazione cittadina ivi compresa l’urbanistica, promuovono opere di embellissement volte in prima istanza a dotare le città di servizi. Ma quest’opera è in genere perseguita con il privilegiare la realizzazione di parchi e viali alberati; questi ultimi, in particolare, assolvono alla funzione di ricucire fra loro le parti preesistenti della città e costituire nuove direttrici di sviluppo nelle zone periferiche e suburbane, in maniera analoga, sotto questo particolare aspetto, a molti dei precedenti fino a ora esaminati, a cominciare dai rettifili della Roma sistina. 
Il caso del plan d’ensemble di Toulouse redatto dal “dilettante” Louis de Mondran alla metà del Settecento è molto significativo sotto questo aspetto. Esplicitamente concepito “pour le commerce et les embellissements”, si risolve in una straordinaria serie di viali alberati che attraversa l’antico centro ed espandendosi all’esterno di esso crea un unico contesto, ispirato sì all’espressione della magnificenza nella scena urbana, ma in una versione civile, non aulica, capace di riannodare le fila tra città e campagna, con ciò tracciando una delle ultime metamorfosi dell’urbanistica barocca, ove il grand goût di tante realizzazioni pregresse si piega alle ragioni della vita collettiva e del mercantilismo e prepara il terreno ai nuovi, futuri, sviluppi dell’urbanistica europea.

Bibliografia

Assunto R., Città e natura nel pensiero estetico del Seicento, in Fagiolo M., Spagnesi G. (a cura di), Immagini del Barocco, Roma, 1982; Connors J., Alleanze e inimicizie. L’ urbanistica di Roma barocca, Roma-Bari, 2005; Guidoni E., L’arte di progettare la città, Roma, 1992; Guidoni E., Marino A., Storia dell’urbanistica. Il Seicento, Roma-Bari, 1979; Marino A., Urbanistica e “Ancien Régime” nella Sicilia Barocca, in “Storia della Città”, 2, 1977, pp. 3-84; Micalizzi P., Roma nel XVIII secolo, in Atlante storico delle città italiane. Roma, 3, Roma, 2003; Portoghesi P., Roma barocca, Roma, 1966; Sica P., Storia dell’urbanistica. Il Settecento, Roma-Bari, 1976.

 

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