Categoria Centrale elettrica Definizione Per centrale elettrica si intende un impianto industriale dedicato alla produzione di energia elettrica. Il nome deriva dal sostantivo più antico di officina elettrica, peraltro di significato più ampio e generico, utilizzato anche per impianti più propriamente definibili come cabina elettrica. La definizione di centrale elettrica corrisponde meglio a quella anglosassone di electric power plant; nell’uso corrente il termine viene talvolta, e impropriamente, utilizzato per indicare la sede di impianti elettrici di vario tipo, in analogia con centrale termica, centrale telefonica, centrale allarmi, centrale antincendio ecc. Generalità L’elemento caratterizzante di una centrale sono le fonti energetiche utilizzate e i processi o i cicli di trasformazione che in essa avvengono. Può essere impiegato combustibile nucleare, con trasformazione intermedia in vapore; gas naturale; vapore geotermico; vento; biomassa; gasolio per fornire l’energia meccanica necessaria a porre in rotazione un generatore elettrico ad esso accoppiato. Il motore primo assume in questi casi il nome di turbina idraulica, turbina a vapore, turbina a gas, rotore eolico, motore endotermico. Solo nel caso della trasformazione diretta in elettrica dell’energia fornita dalla radiazione solare (sistemi fotovoltaici) la centrale di produzione non richiede il passaggio intermedio per l’energia meccanica e il sistema è interamente di tipo statico, privo di parti in movimento (salvo l’eventuale sistema di movimentazione dei pannelli per l’inseguimento solare in modo da ottimizzarne la resa). Il sistema di generazione elettrica fornisce la potenza elettrica da immettere in rete con caratteristiche compatibili con la rete stessa, solitamente il sistema trifase di tensioni alternate. Le centrali elettriche assumono denominazioni specifiche quali: centrale idroelettrica, centrale termoelettrica, centrale geotermoelettrica, centrale termonucleare, centrale solare, centrale eolica (talvolta indicata anche come fattoria del vento quando si è in presenza di un complesso unitario che comprende una molteplicità di generatori eolici). La produzione di energia elettrica a bocca di centrale è quasi esclusivamente in corrente alternata trifase a frequenza industriale (50 o 60 Hz), con tensioni comprese tra 400V e 20kV a seconda della potenza installata. Fanno eccezioni le centrali fotovoltaiche, i cui pannelli forniscono tensioni continue, convertite però sul posto in alternate grazie a dispositivi statici invertitori. Le potenze sono variabilissime in ragione delle tipologie di impianto e delle risorse disponibili: da pochi kW di piccoli impianti idroelettrici o fotovoltaici fino a 1600–2000MW e oltre di grandi impianti termoelettrici, nucleotermoelettrici e grandi derivazioni idroelettriche. L’allacciamento alla rete elettrica di trasmissione richiede, almeno per potenze elevate, l’interposizione tra la centrale e la rete di una stazione (o cabina) di trasformazione che eleva la tensione al livello di quella di rete (130, 220, 400 kV). Sviluppi recenti nelle centrali elettriche riguardano le centrali a gas a ciclo combinato nelle quali si utilizza il gas di scarico della turbina per un ciclo tradizionale con turbina a vapore, potendo in tal modo elevare il rendimento complessivo della centrale anche fino al 60%; le centrali termonucleari di terza e quarta generazione, particolarmente affidabili e a elevato rendimento; le miniturbine idrauliche; i generatori eolici privi di moltiplicatore di velocità, più silenziosi ed efficienti; i termovalorizzatori, che consentono l’utilizzo dei rifiuti con un ciclo termoelettrico anche se di non elevato rendimento; le centrali solari termiche a concentrazione che sfruttano l’energia solare senza uso di pannelli fotovoltaici; i pannelli fotovoltaici in silicio amorfo. Grandi sforzi sono in corso per realizzare la prima centrale termonucleare a fusione anziché a fissione che consentirebbe di superare il problema cruciale della sicurezza e delle scorie nucleari: il progetto internazionale ITER in corso a Cadarache (Francia) rappresenta un passo decisivo in questa direzione. Tra le centrali si possono considerare anche i sistemi di cogenerazione (produzione combinata di energia e elettrica e calore) utilizzati anche per sistemi di teleriscaldamento, e i sistemi diesel-elettrici utilizzati quali sistemi di riserva in impieghi sensibili (ospedali, caserme, banche, centri nevralgici importanti per le telecomunicazioni, processi industriali, critici ecc.). Alcune tipologie di centrali sono poco note e diffuse a causa di obiettivi limiti legati ai pochi siti ambientali disponibili, o a tecnologie non ancora mature o limiti dimensionali che le rendono inadatte per grandi potenze: le centrali maremotrici, che sfruttano il movimento del mare dovuto alle maree; le centrali talassotermiche, che sfruttano la differenza termica dei diversi strati dell’oceano; le centrali a osmosi, che utilizzano un particolare processo basato sulla diversa salinità dell’acqua in prossimità della foce dei fiumi; le celle a combustibile che combinando opportunamente idrogeno e ossigeno forniscono una produzione combinata di energia elettrica e calore (l’idrogeno non è però una vera e propria risorsa energetica ma solo un vettore energetico provenendo a sua volta da processi chimici che consentono di ricavarlo dal gas naturale o da processi elettrochimici). Il problema principale per le centrali di grossa taglia è l’individuazione di adatti siti di localizzazione che consentano da un lato il comodo e conveniente approvvigionamento di combustibile e dall’altro, per le centrali di tipo termoelettrico e termonucleare, la presenza di grandi quantità d’acqua di raffreddamento. In particolare per le centrali nucleari è anche richiesta la rigorosa garanzia di sicurezza idrogeologica e sismica del sito. La liberalizzazione dei mercati dell’energia elettrica e la politica degli incentivi hanno dato impulso alle cosiddette smart grid, cioè a una vasta diffusione sul territorio di piccole unità di produzione di energia elettrica, essenzialmente di fonte eolica, fotovoltaica, idraulica, con funzioni integratici del fabbisogno dell’utenza diffusa o anche con superi di produzione da immettere in rete. Sviluppi in questa direzione avvengono anche nel settore delle piccole centrali di cogenerazione, azionate a gas metano, in grado di fornire ad unità abitative o a piccole unità produttive sia energia elettrica che calore (in qualche caso, grazie all’uso di sistemi ad assorbimento, anche la refrigerazione nel periodo estivo). La diffusione della microgenerazione distribuita richiede la revisione dell’impostazione tradizionale della rete di trasporto e distribuzione dell’energia elettrica: il controllo della tensione e della frequenza, attualmente garantiti essenzialmente dalle grandi centrali elettriche, dovrà assumere una fisionomia distribuita grazie a un raffinato utilizzo delle più moderne tecnologie informatiche e di telecomunicazione. Anche la sicurezza e l’affidabilità del sistema, e quindi la filosofia delle protezioni, dovranno subire una radicale innovazione riuscendo molto più difficile il governo dei flussi di potenza immessi e transitanti sulle reti grazie alla presenza di una molteplicità di soggetti, un tempo solo utilizzatori di energia elettrica ma, nel nuovo scenario che si va delineando, anche (o solo) produttori di energia elettrica.
Categoria Gasometro Serbatoio dove i gas combustibili sono stoccati a pressioni e temperature prossime a quelle dell’ambiente. Per la bassa pressione, nonostante le dimensioni superino i 50.000 m3 , il gasometro non contiene grandi quantità di gas. Attualmente il suo compito principale è di organo di sicurezza per compensare aumenti di pressione nelle tubazioni di trasporto del gas. I gasometri a secco sono cilindri chiusi inferiormente e aperti superiormente. Il volume è variabile per lo scorrimento verticale di un coperchio mobile guidato da rulli e con dispositivi di tenuta lungo la circonferenza, che possono usurarsi nel tempo. Uno sviluppo attuale dei gasometri a secco sono quelli a membrana, spesso di ridotte dimensioni, basati su membrane saldate che delimitano una camera di aria di forma diversa. I gasometri a guardia idraulica o a campana sono formati da cilindri chiusi superiormente che scorrono in verticale con la base inferiore immersa in una vasca di acqua. Il battente di acqua liquida assicura la tenuta del gas che viene immesso e prelevato mediante tubi che emergono dall’acqua. Inconvenienti sono l’elevato volume di liquido e la possibilità del congelamento dell’acqua. Per rendere utile tutto il volume disponibile si usano campane telescopiche. I gasometri sono in disuso, diventando spesso un esempio di archeologia industriale, o sono recuperati per usi civili (esempio il gasometro di Vienna).
Categoria Gigante, ordine Definizione-Etimologia Estensione di un solo ordine architettonico, detto gigante o colossale, su più piani di un edificio. L’aggettivo gigante deriva dai sostantivi latino gigas, gigantis e grego Γιγας, riferiti ai Giganti, esseri di dimensioni vistosamente superiori al normale, che scalarono l’Olimpo per cacciare Giove. Esprime, in architettura, l’uso particolare degli ordini architettonici, per cui si genera uno scarto dimensionale tra il sistema dell’ordine gigante, il cui modulo è proporzionato rispetto all’altezza di due o più piani dell’edificio, e quello delle altre componenti della facciata, i cui livelli sovrapposti sono caratterizzati da elementi di modulo minore. Prescinde quindi dalle dimensioni assolute dell’ordine impiegato. Poiché più piani dell’edificio sono collegati tra loro dai fusti delle colonne o delle paraste, l’impiego dell’ordine gigante è alternativo alla sovrapposizione degli ordini nell’articolazione di facciate a più livelli, dove invece l’altezza dell’ordine corrisponde a quella di un piano, come nel Colosseo. Storia Nell’architettura antica è poco frequente l’uso dell’ordine gigante. In rari casi compare in modo allusivo o ibrido, talvolta senza una piena riconoscibilità dell’ordine minore. Dal Quattrocento vengono formulate le prime soluzioni di ordine gigante nella chiesa di S. Andrea a Mantova. Elaborando il modello dell’arco trionfale, quattro paraste coprono l’altezza della facciata e nelle campate laterali si sovrappongono tre livelli di bucature. Il sistema si struttura in modo pieno con Michelangelo, che adotta l’ordine gigante nell’involucro di San Pietro in Vaticano, poi ripreso da Maderno in facciata. Nelle chiese palladiane l’ordine gigante articola il settore centrale della facciata, relativo alla navata, mentre alle navatelle corrisponde un ordine di modulo minore. Nell’architettura civile, a parte i numerosi casi in cui le facciate adottano un ritmo di campate alternate, sono nuovamente Palladio e Michelangelo che sperimentano l’uso dell’ordine gigante. A Vicenza, nel palazzo Valmarana, Palladio sovrappone l’ordine gigante delle sei paraste composite a quello minore di paraste corinzie; nella loggia del Capitaniato le possenti semicolonne si estendono su due livelli. Michelangelo ne propone l’uso a Roma nel palazzo dei Conservatori al Campidoglio, dove esso si estende ai due piani dell’edificio. Nel barocco romano è soprattutto Borromini a usare l’ordine gigante, nel cortile dell’oratorio dei Filippini e nel palazzo di Propaganda fide. A partire dal XVII secolo l’uso dell’ordine gigante si diffonde in Europa e poi in America, soprattutto tramite i modelli palladiani. Esempi Oltre agli edifici citati, si vedano: cortile anteriore e tempio di Bacco nel santuario di Giove Eliopolitano, Baalbek; arco di Traiano a Timgad; basilica di Pompei; Villa Barbaro a Maser; San Giorgio Maggiore, il Redentore, San Pietro a Castello e San Francesco delle Vigne a Venezia; palazzo Carignano, Torino; ospedale di Greenwich; place Vendôme, Parigi; Vaux-le-Vicomte; Municipio, Amsterdam; chiesa am Hof, Vienna; Schauspielhaus, Berlino; teatro Massimo, Palermo, Casa Bianca, facciata sud, Washington D.C; edificio per uffici in via Mokhovaya e Casa dei Leoni in Patriarshiye Ponds, Mosca. Bibliografia Bruschi A., Michelangelo in Campidoglio e l'”invenzione” dell’ordine gigante, in «Storia architettura», IV, 1979, 1, pp.7-28; Puppi L., Prospetto di palazzo e ordine gigante nell’esperienza architettonica del ‘500, in «Storia dell’arte», 1980, 38/40, pp.267-275.
Categoria Funzionalista, architettura Definizione Il funzionalismo è concetto elaborato dalle scienze antropologiche e sociali, nell’Ottocento da H. Spencer e É. Durkheim, quindi nel Novecento da B. Malinowsky e A. R. Radcliffe-Brown, che legano l’idea di funzione a quella di evoluzione, relazione, integrazione, processo, struttura, organismo. In architettura, esso è presente dapprima nell’opera e nel pensiero di Henry Sullivan, che propone in Kindergarten Chats and other writings (1901-06) la teoria di un rapporto biunivoco tra funzione e forma, sostenendo che la funzione deve trovare una sua forma, ma che la forma autentica, parla, significa la funzione, fondendole in tal modo nell’unità organica. Negli anni Venti il funzionalismo viene assunto anche dall’architettura europea che aspira ad una dimensione scientifica. Lo Zweckbau, letteralmente “costruzione secondo lo scopo” – ovvero la funzione – o anche “architettura pratica”, è il termine che usa W. Behne nel suo saggio Der moderne Zweckbau (1923), tradotto in italiano L’architettura funzionale (1968). Nel 1922 W. Gropius aveva pubblicato Internazionale Architektur, proponendo tematiche analoghe, ma aprendo il discorso in una più ampia prospettiva. Gropius e Behne tentano di dimostrare le ragioni e l’internazionalità dell’architettura funzionalista facendovi convergere molte tendenze, da quella organica di F.L. Wright a quella funzional-espressionista di H. Häring e di E. Mendelsohn, fino al razionalismo tedesco e olandese. Storia, temi e metodo Il razionalismo europeo, negli anni Venti, individua la funzione come punto d’origine del procedimento progettuale, interessandosi proprio al percorso che dalla funzione giunge alla forma, anzi alla gute Form, alla forma buona, o vera. Ciò è evidente nel dibattito del Werkbund, in particolare nella discussione del 1927 tra L. Mies van der Rohe e W. Riezler – direttore della rivista dell’Associazione «Die Form» – a proposito della parola scelta per la testata del periodico. Porsi come obiettivo la forma, secondo Mies, porta comunque al formalismo, mentre ciò che conta è il processo per arrivarci, quello che dalla funzione, attraverso la disciplina dei materiali, arriva al lavoro creativo. Riezler ribatte che, se però il processo si arresta al momento embrionale e non viene raggiunta la gute Form, ciò che ne risulta non ha alcuna vitalità. La ricerca della “esattezza” della forma, o addirittura della sua “perfezione”, resta comunque ancorata al riconoscimento della funzione come punto di partenza. Per raggiungere la gute Form, però, è necessaria una capacità poetica che risulta indeterminabile; la funzione, invece, può essere individuata chiaramente e se ne possono verificare articolazione e sviluppo. La teoria funzionalista diventa così una delle componenti ideologicamente più forti del Movimento Moderno, proprio per la sua parvenza di scientificità. La rilevanza sociale delle funzioni individuate ne corroborano la presa sulla realtà: sono l’urbanistica, la casa, i servizi, la costruzione, l’economia. Il metodo è quello di riportare ogni problema alla propria base materiale, razionalmente individuabile e tecnicamente circostanziabile. L’architettura funzionalista trae la propria forza e la propria capacità di convincimento dalla apparentemente facile dimostrabilità delle proprie tesi. Di qui la sua rapida diffusione che trova validi sostenitori in molti paesi europei, innervando anche i contenuti di molte riviste di avanguardia in Germania, Olanda, Spagna, Svizzera e Unione Sovietica, come «G», «ABC, Beiträge zum Bauen», «S.A.», «A.C.». Si determina, in fondo, una sovrapposizione, tra architettura funzionalista e razionalismo europeo, quasi che il funzionalismo ne sia la motivazione chiave. I convegni internazionali del CIAM, con il dibattito sulla città funzionale, i tipi edilizi residenziali, il modo di costruire, servono al confronto internazionale sulle ricerche in questo campo. Con la Mostra “International Style” al MOMA di New York del 1932, organizzata da H.-R. Hitchcock e P. Johnson, si registra un cambiamento di rotta, dovuto a una interpretazione che toglie all’architettura europea proprio la sua matrice funzionalista. La formula con la quale i due critici americani offrono il Movimento Moderno europeo agli Stati Uniti – ma anche al mondo, data la formidabile risonanza dell’evento – poggia, infatti, proprio sulla contestazione del funzionalismo, con il quale si apre il saggio introduttivo del catalogo. Negare l’elemento estetico e asserire che l’architettura sia una scienza e non un’arte, o basare il progetto soltanto sull’economia e sui problemi pratici dell’industrialismo – come vorrebbero i più radicali esponenti europei H. Mayer e S. Giedion o gli ingegneri americani –, sembra a Hitchcock e Johnson allo stesso tempo un limite e una falsificazione. In realtà, essi propongono di superare ogni zelo ascetico ancorato alla pura utilità, affermando che gli architetti europei hanno saputo codificare uno “stile”, anzi lo stile del tempo, il cui valore artistico è del tutto confrontabile con quello dei grandi stili del passato. Hitchcock e Johnson ne sintetizzano addirittura la formula in tre elementi: architettura come volume piuttosto che come massa, regolarità piuttosto che simmetria, eliminazione dell’uso arbitrario della decorazione. Sottraendo, dunque, al Movimento Moderno il primato del funzionalismo, essi gli restituiscono in pieno quel valore poetico che era restato fino a quel momento in ombra, anzi spesso negato dai suoi stessi fondatori dell’architettura funzionalista. Si rivaluta così il principio della figuratività astratta che innerva tutta la ricerca dell’avanguardia europea. Ma allo stesso tempo, privando la nuova architettura dei suoi moventi funzionali, etici e sociali, si creano le basi di quel formalismo privo di nuovi stimoli creativi che, come prevedeva Mies van der Rohe, sarebbe stata la conseguenza negativa di questo atteggiamento. L’International Style, largamente diffuso negli anni Quaranta e Cinquanta soprattutto negli Stati Uniti, ne sarà la dimostrazione. Esemplificazioni Gli esempi proposti da Behne vanno dagli Stabilimenti Fagus di W. Gropius e A. Meyer a Alfeld (1911) alla Fattoria a Gut Garkau di H. Häring (1924), al Grattacielo per San Francisco di F.L.Wright (1920). Lo stesso Bauhaus di W. Gropius a Dessau (1925) può considerarsi a ragione modello sia del funzionalismo sia del razionalismo. Altrettanto può dirsi delle Mostre che il Werkbund dedica all’abitazione, in particolar modo quelle di Stoccarda (1927), Breslavia (1929), Praga (1932), Vienna (1932). Nella Weissenhofsiedlung di Stoccarda si dimostra in concreto l’esito dello studio sull’alloggio, la costruzione in acciaio e cemento armato, la progettazione sistematica degli interni con la Frankfurter Küche di G. Schütte-Lihotzky. Bibliografia Alfani A., Carbonara G., Pinci F., Severati C., Costruire Abitare. Gli edifici e gli arredi per la Weissenhofsiedlung di Stoccarda, «Bau und Wohnung» e «Innenräume» (1927-1928), Roma 1992; Behne, A., Der moderne Zweckbau, Frankfurt-Berlin, 1923-1964, trad. it., Id, L’architettura funzionale, Firenze 1968; Gropius W., Internationale Architektur, Dessau 1922; Hitchcock H.R., Johnson P., International Style, New York 1932, trad. it., Id., Lo Stile Internazionale, Bologna 1982; Joedicke J., Plath Ch., Die Weissenhofsiedlung / The Weissenhof Colony / La Cité de Weissenhof- Stuttgart, Stuttgart, 1984; Krischanitz A., Kapfinger O., Die Wiener Werkbundsiedlung. Dokumentation einer Erneuerung, Wien 1985; Leuthäuser G., Gössel P., Functional Architecture. The International Style 1925-1940 by H.-R. Hitchcock, P. Johnson, Köln, 1990; Sartoris, A., Architecture Nouvelle, ordre et climat meditérranée, I vol., Architecture Nouvelle, ordre et climat nordique, II vol., Milano 1957; Sartoris A., Introduzione alla architettura moderna, Milano 1949; Sharp, D., The rationalists. Theory and design in the modern movement, London 1978; Templ S., Baba. Die Werkbundsiedlung Prag / The Werkbund Housing Estate Prague, Basel-Boston-Berlin 1989.
Categoria Esprit Nouveau Testata della rivista, inizialmente diretta dal poeta e giornalista Paul Dermée, che registra il dibattito tra Post-cubismo, Dada, Espressionismo, Surrealismo, Futurismo, a partire dalla stessa definizione del lavoro artistico. I 28 numeri de «L’Esprit Nouveau» escono a Parigi dal 1920 al 1925. A. Ozenfant e C.-E. Jeanneret ne sono cofondatori e vi svolgono un ruolo fondamentale, pubblicando l’articolo Le Purisme, sintesi del movimento pittorico da loro promosso nel 1918. Nel 1925, allorché i due artisti concludono l’esperienza comune, Le Corbusier, pseudonimo suggerito a Jeanneret dallo stesso Ozenfant per firmare gli articoli di contenuto architettonico, inizia il suo cammino individuale di architetto, proseguendo in concreto le riflessioni teoriche di Vers une architecture. Il Padiglione del L’Esprit Nouveau, ideato da Le Corbusier per l’Esposition Internazionale des Arts Decoratifs a Parigi (1925), incorpora la cellula dell’Immeuble-villas disegnata per Une Ville Contemporaine (1922) e sviluppata per l’occasione. Esso si compone di due parti: a destra l’abitazione a due piani, a sinistra un blocco cilindrico attraversato da una piattaforma circolare dalla quale si vede, su due grandi schermi curvi, il diorama della Ville de 3 millions d’habitants. Le Corbusier traccia in tal modo l’arco completo dei propri interessi che vanno dalla metropoli contemporanea all’alloggio. Bibliografia De Benedetti, M., Pracchi., A., Le Corbusier «L’Esprit Nouveau», in Antologia dell’architettura moderna. Testi, manifesti, utopie, Bologna, 1988, pp. 345-381; Gabetti, R., Olmo, C., Le Corbusier e «L’Esprit Nouveau», Torino 1975; Gresleri, G., L’Esprit Nouveau, Parigi-Bologna. Costruzione e ricostruzione di un prototipo dell’architettura moderna, Milano 1979; Le Corbusier, Vers une architecture, Paris 1923 ; trad. it., Id., Verso una architettura, Milano 1979Ozenfant A. Jeannaret C.E., Après le Cubisme, Paris, 1918 -1999.
Categoria Computo metrico estimativo Definizione Il computo metrico estimativo (CME) è uno degli elaborati di cui si compone il progetto e attraverso il quale si perviene, in modo analitico, alla stima sommaria (nel progetto definitivo) e definitiva (nel progetto esecutivo) del valore di costo di costruzione di un’opera (VC). Generalità Il VC viene determinato individuando le quantità delle singole lavorazioni necessarie per eseguire l’opera (dedotte dagli altri elaborati del progetto definitivo), moltiplicando ciascuna per il suo prezzo unitario e sommando fra loro tutti i valori di costo così ottenuti. Il VC stimato nel CME confluisce in un quadro economico (QE) per la determinazione del costo totale d’intervento (CT). Nel CME possono essere previste, in relazione a specifiche caratteristiche dell’opera, somme da accantonare per eventuali lavorazioni in economia, da prevedere nel contratto d’appalto (CA) o da inserire nel QE tra quelle a disposizione della stazione appaltante. Uno sviluppo contestuale delle soluzioni progettuali e del CME permette una verifica delle scelte dimensionali, tipologiche, costruttive, produttive ecc. utile per accertare la compatibilità fra costo complessivo d’intervento e somme finanziarie stanziate dall’Amministrazione, con la programmazione annuale, in relazione alla stima sommaria del VC elaborata nel progetto preliminare. Nel CME le lavorazioni da eseguire per produrre il manufatto devono essere: computate, cioè identificate e descritte; misurate nelle quantità fisiche; stimate nel costo rispetto al loro prezzo unitario. Le lavorazioni, da elencare in sequenza cronologica, sono codificate e illustrate nell’esecuzione, identificando materiali, procedimenti, mezzi e attrezzature, manodopera. Le quantità devono essere calcolate geometricamente in modo analitico, indicando norme e unità di misura adottate. Specifiche indicazioni su questi aspetti sono riportate nel capitolato speciale d’appalto. Il prezzo unitario di costo di ciascuna lavorazione, espresso nella relativa unità di misura, può essere stimato o in modo sintetico, desumendolo da appositi tariffari oppure da listini ufficiali vigenti nell’area interessata, o in modo analitico, attraverso l’analisi delle quantità e dei prezzi dei fattori produttivi da impiegare per produrre un’unità di prodotto (analisi prezzi unitari). I prezzi unitari di costo delle lavorazioni sono elencati in un altro elaborato di progetto: l’elenco prezzi unitari. I tariffari definiscono prezzi medi con riferimento a condizioni esecutive ordinarie relative a dimensioni, accessibilità e organizzazione del cantiere. L’analisi dei prezzi unitari è effettuata soprattutto quando il progetto e/o la situazione di mercato locale non permettano di assimilare, nella descrizione, nell’esecuzione o negli importi, le lavorazioni dedotte dagli elaborati a quelle ordinarie dei prezziari; vengono individuate quantità di materiali, manodopera, noli e trasporti necessari per realizzare una unità di prodotto, vengono moltiplicati per i rispettivi prezzi elementari (dedotti da listini ufficiali o delle Camere di commercio locali o da prezzi correnti di mercato) e viene aggiunta al totale di questi importi una quota percentuale per: oneri per la sicurezza (% del totale); spese generali dell’impresa (13÷15%); utile dell’appaltatore (10%). Per le opere pubbliche il CME è utilizzato da: committente/stazione appaltante o appaltatore. Committente/stazione appaltante lo utilizzano o per inserire l’opera nella programmazione annuale (programmazione) o per fissare requisiti dei concorrenti e costo massimo da porre a base d’asta; valutare le offerte presentate (gara) o controllare che l’opera sia costruita secondo i requisiti programmati e poi stabiliti nel CA (esecuzione). L’appaltatore lo utilizza o per presentare le offerte integrando o riducendo quantità valutate carenti o eccessive e/o inserendo voci e relative quantità mancanti (gara) oppure per realizzare l’opera secondo il CA (esecuzione). Bibliografia Forte F., De Rossi B., Principi di economia ed estimo, Milano, 1974; Pietrangeli Papini L., La gestione dei lavori pubblici, Gorle (BG) 2003.
Categoria Colonna (costruzioni) La colonna si compone di tre elementi distinti: la base, il fusto e il capitello. La base raccorda il fusto con il piano d’appoggio, assume diverse forme e può anche mancare. Oltre ad avere una funzione estetica, contribuendo ad aumentare l’altezza della colonna, ha una funzione statica, in quanto aumenta la superficie di appoggio e, pertanto, incrementa la stabilità. Il fusto (o corpo o tronco) costituisce la parte più importante della colonna. Approssimativamente cilindrico, spesso è rastremato verso l’alto, più raramente verso il basso, e talvolta presenta nella sua parte mediana un rigonfiamento detto éntasis, che ha lo scopo di enfatizzare la funzione statica della colonna appesantita dagli elementi architettonici ad essa sovrapposti. La superficie può essere liscia, poligonale, scanalata, talvolta a spirale. Se di pietra, il fusto può essere monolitico, cioè formato da un solo pezzo, oppure suddiviso in più pezzi che sono detti rocchi o tamburi, o anche conci, nei casi di sezione squadrata. Con il termine snellezza si indica il rapporto tra il diametro della base del fusto e la sua altezza: nell’architettura classica tale rapporto ha avuto rilevante importanza sia da un punto di vista statico che estetico ed è variato, con buona regolarità, da 1/8 a un 1/10 a un 1/12 passando dal dorico allo ionico al corinzio. Il capitello collega il fusto alle membrature soprastanti e funge da appoggio degli elementi strutturali. Talvolta serve a ridurre la luce degli architravi e delle piattabande che collegano le colonne tra di loro. Esistono diverse forme di capitelli, da quelle dell’architettura greca classica, distintive dei vari ordini architettonici, alle soluzioni più varie e decorate. Talvolta, sotto il capitello, è presente un collare. Unite in serie, le colonne formano colonnati; a coppie definiscono portali o segnano punti di passaggio; isolate, talvolta sovrastate da statue, segnano punti particolari o hanno funzione celebrativa. Strutturalmente, negli edifici, la colonna ha lo scopo di sostenere i pesi delle parti sovrastanti e degli elementi di copertura degli intercolumni: architravi, piattabande o archi; lavora prevalentemente a sforzo normale, come una biella, in quanto, data la propria snellezza, non è in grado di contrastare efficacemente azioni orizzontali. La distinzione tra colonna e pilastro è ricondotta solitamente alla diversa forma della sezione trasversale, che sembra essere il principale elemento di discriminazione. Di fatto i due termini sono in genere associati a due diverse funzioni statiche, in quanto il termine pilastro è spesso riferito ad un elemento costruttivo in grado si sopportare anche sollecitazioni flessionali. I meccanismi di crisi statica di una colonna sono prevalentemente prodotti da fenomeni di schiacciamento, per carico eccessivo, o da fenomeni di rotazione, per la presenza di azioni orizzontali. Nel primo casi la crisi è segnalata da lesioni verticali; nel secondo da scheggiature inclinate in corrispondenza della base o della sommità. In entrambi i casi il consolidamento può essere effettuato con cerchiature: nel primo caso, in modo diffuso sul fusto, nel secondo caso, con anelli posti alla base e in sommità. Bibliografia Acocella A. (a cura), L’architettura di pietra: antichi e nuovi magisteri costruttivi, Firenze, 2004; Mastrodicasa S., Dissesti statici delle strutture edilizie. Diagnosi, consolidamento, Istituzioni Teoriche, Milano, 1993.
Categoria Modellazione (costruzioni) Definizione – Etimologia Dal lat. módulus, diminutivo di módus, ossia “misura”. La modellazione è una schematizzazione della realtà fisica. Significa rilievo dell’opera che si vuol fare, forma piccola di un opera da farsi in grande oppure forma secondo la quale si tagliano i pezzi di un lavoro. Generalità La modellazione è una simulazione della realtà fisica la cui forma e il cui comportamento vengono schematizzati attraverso determinati elementi e proprietà nel modo più realistico possibile. In ambito architettonico è in uso, fino dai tempi più remoti, la riproduzione in scala di singoli elementi costruttivi o di interi edifici, attraverso la costruzione di modelli e plastici, al fine di verificare le forme e i problemi costruttivi, oltre che per presentare il progetto architettonico ai committenti. Famosi sono, ad esempio, i modelli storici delle cupole di Santa Maria del Fiore e di San Pietro a Roma. Brunelleschi realizzò anche un modello ridotto in mattoni della sua cupola. Nella prima metà del secolo scorso, i modelli materici sono stati molto usati anche per l’analisi del comportamento strutturale di elementi complessi, ad esempio per le dighe. Nel lessico architettonico e ingegneristico attuale, la modellazione strutturale consiste nell’individuazione di schemi statici che permettono di descrivere in modo realistico il comportamento fisico di una costruzione. Con la diffusione del calcolo elettronico, l’espressione “modellazione numerica” è diventata di uso comune per indicare modelli virtuali di calcolo, in genere di interi edifici.
Categoria Convento (storia) Definizione – Etimologia Dal latino classico conventus, riunione, ma anche comunità, passa a indicare, nel linguaggio della Chiesa, il luogo ubi conveniunt monachi per deliberare collettivamente, poi l’edificio eletto a residenza comune; più specificamente il termine è entrato nell’uso per definire gli organismi abitativi realizzati dagli Ordini mendicanti (Domenicani, Francescani, Agostiniani, Carmelitani e Serviti) a partire dal XIII secolo, con l’eccezione dei corrispondenti Ordini femminili, come le Clarisse, per i quali si preferisce la dizione monastero, e si è esteso poi alle costruzioni dei diversi Ordini di chierici regolari più recenti. Processo storico Sotto l’aspetto architettonico e funzionale, il convento presenta gli stessi elementi dell’edilizia monastica tradizionale, cioè, principalmente, oltre la chiesa, la sala capitolare, il refettorio, il dormitorio (organizzato in celle indipendenti), l’infermeria, le officine (cucina, dispensa ecc.), la biblioteca; inoltre dispone, in molti casi, di locali specifici per l’insegnamento e più in generale di spazi accessibili al pubblico, che, insieme alla collocazione urbana o prossima a un centro abitato, ne sottolineano il carattere di apertura verso il mondo esterno. I Domenicani affrontano il problema di costruire proprie abitazioni fin dai primi anni del secolo XIII e, in quanto canonici, adottano il modello claustrale con i tradizionali ambienti che lo circondano, salva la necessità di adeguarlo alle preesistenze e alle ristrettezze di spazio conseguenti a una collocazione all’interno o a ridosso delle cinte murarie. Le Costituzioni del 1228 impongono precisi limiti all’altezza dei fabbricati, che si vogliono mediocres e humiles per rimanere fedeli all’ideale della povertà, ma le celle hanno dimensioni ampie, per potervi collocare oltre al letto un banco di studio, funzionale alla vocazione intellettuale e scientifica dell’Ordine. In alcuni conventi si aggiunge, agli altri ambienti destinati alla vita comune, un predicatorium, locale utilizzato per gli esercizi di predicazione da tenere davanti a un pubblico selezionato. Diversa agli inizi, e più differenziata, la vicenda dei Francescani che, per il carattere prevalentemente itinerante della originaria fraternitas, non avvertono l’esigenza di sedi stabili, limitandosi a utilizzare abitazioni qualsiasi (loca), anche provvisorie. Ma negli ultimi anni prima e subito dopo la morte di san Francesco, in parallelo con il rapido processo di clericalizzazione dell’Ordine, essi si adeguano ai modelli domenicani, distinguendo tra loca conventualia, relativi ai conventi maggiori, con un rilevante numero di frati, quali sono in particolare quelli nelle città universitarie (sedi solemniores, Parigi, Oxford, Bologna, Napoli, già aperte intorno al 1250), e loca non conventualia, comprendenti gli eremi e le modeste sedi originarie, abitate dai primi compagni di Francesco e poi dalla corrente degli Spirituali, ostili alla realizzazione di conventi monumentali, le quali furono integrate con la costruzione di un chiostro e di pochi altri ambienti solo alla fine del secolo XIV, quando il diffondersi dell’osservanza (fenomeno comune anche agli altri Ordini mendicanti, ma in misura meno radicale) portò ovunque a una nuova fioritura di sedi piccole e umili. La grande diversità di programmi, di obiettivi e di mezzi nelle costruzioni degli Ordini mendicanti (per cui ancora oggi comunemente si parla di case madri, case generalizie, case provincializie, da cui dipendono i singoli conventi, e di case di studio) come pure il gran numero degli insediamenti (i soli Francescani alla fine del secolo XV contavano in Europa circa tremila conventi) producono una notevole varietà di tipologie e di soluzioni particolari, che tuttavia conservano una propria riconoscibilità. Caratteristiche comuni agli impianti maggiori sono l’importanza assunta dalle biblioteche, che talvolta occupano un’intera ala del complesso (convento di San Marco a Firenze), o un edificio a sé stante, e il proliferare dei chiostri (sette in Santa Maria Novella a Firenze), con dimensioni, funzioni e forme diverse, quello più esterno destinato alle attività di pubblico interesse. I vari Ordini di chierici regolari, fondati a partire dal XVI secolo, nel fervido clima della Riforma cattolica, con il programma di restaurare i valori originari della vita religiosa comunitaria (i Teatini nel 1524, i Cappuccini nel 1525, i Somaschi nel 1528, i Barnabiti nel 1530, i Gesuiti nel 1534; dopo il Concilio di Trento gli Scolopi), si votano alla predicazione e prevalentemente all’educazione dei giovani; i Camilliani (fondati nel 1584) dedicano la loro opera alla cura degli infermi. Non tutte le costruzioni di questi Ordini furono e sono chiamate convento; i Gesuiti, ad esempio, usano parlare di case e collegi, ed è evidente l’importanza assunta dagli spazi destinati alle attività scolastiche, ma, nella sostanza, adottano ancora gli stessi modelli degli edifici conventuali, applicandoli, nei centri urbani, a schemi planimetrici più compatti, mediante l’integrazione delle diverse funzioni, compresa la chiesa, in un blocco edilizio unitario (controriforma, architettura della). Ne sono esempi, in Roma, il Collegio Romano e l’Oratorio dei Filippini (Santa Maria in Vallicella). I Filippini sono una comunità di sacerdoti e di fratelli laici, che fanno azione di apostolato proponendo sermoni, letture edificanti e ricreative, ed esecuzioni musicali, in un’apposita sala posta in facciata all’edificio; per le abitazioni adottano uno stile di vita severo, ma non privo di comodità, con appartamenti autonomi, anche di più ambienti (camera da letto, camerino, studiolo, guardaroba ecc.). La novità è ripresa da altri Ordini religiosi, per cui, nel XVII secolo, i maggiori progressi, relativamente al comfort e alla riservatezza, riguardano i conventi, più che le residenze nobiliari tradizionali. Per l’aspetto esterno, i conventi tardobarocchi si adeguano all’architettura dei palazzi e delle case di abitazione borghesi, risultando quasi indistinguibili da queste ultime, se non per una maggiore semplicità dell’apparato decorativo. La seconda metà del XVIII secolo vede accendersi, per motivi ideologici e politici, un’aspra polemica contro gli Ordini religiosi, in particolare verso i Gesuiti che sono soppressi con bolla di Clemente XIV nel 1773, e si ha una conseguente riduzione dell’attività edilizia relativa. Ma soprattutto le secolarizzazioni dei beni ecclesiastici, durante la Rivoluzione francese e in epoca napoleonica, e, in Italia, le leggi eversive sabaude e postunitarie del 1866 e 1867 hanno avuto come conseguenza il passaggio di molti conventi storici nelle mani della proprietà privata o demaniale. La natura di “contenitore” propria di questi edifici ne ha consentito in molti casi il riuso con le funzioni più diverse: uffici per l’amministrazione dello Stato, scuole e università, carceri, alberghi ecc. Il fenomeno prosegue nel secolo XX e, a fronte di un numero ridotto di nuove realizzazioni, si accentua con il progressivo decremento delle vocazioni. Bibliografia Braunfels W., Abendländische Klosterbaukunst, Köln, 1979; Debuyst F., Il genius loci cristiano, Milano, 2000.
Categoria Arco (storia) Definizione-Etimologia Dal latino arcus. Il termine indica una struttura portante ad asse curvilineo, i cui estremi poggiano generalmente su piedritti o colonne. Storia In modo rudimentale il principio costruttivo dell’arco è rilevabile nella necropoli di Abido (Egitto, circa 2300 a.C.), in una volta costituita da conci (concio) di pietra alternati con mattoni crudi, tenuti insieme da una malta embrionale, che consentono la convergenza dei conci al centro di curvatura, e in altri esempi dell’area mediorientale; ma le più antiche strutture che applicano il sistema dell’arco a conci radiali sono precedute da altre (pseudoarchi), ottenute sia con uno o due grandi blocchi accostati e scavati a sagoma curvilinea, sia con materiali di taglia modesta, a letti orizzontali progressivamente aggettanti. Queste tecniche continuano a essere usate anche successivamente alle esperienze a conci radiali ricordate, confermando che l’arco non è il risultato dell’intuizione delle sue proprietà statiche, ma più genericamente una forma connessa all’esigenza di coprire una luce rilevante. L’impiego, nelle coperture, di pseudoarchi e archi parzialmente non spingenti ha anche il fine, in aree povere di legname, di evitare le centine. A questo scopo un’altra tecnica adottata è costituita da una serie di archi a conci disposti su un piano non verticale ma inclinato, appoggiati l’uno sull’altro e infine al muro di fondo dell’ambiente, sul quale si scarica il peso di ogni singolo strato. In Egitto, come pure in Mesopotamia, dove le prime testimonianze di archi sembrano risalire al VI millennio a.C., questi tipi di coperture ad arco sono utilizzati esclusivamente in ambito funerario o per ambienti secondari, quali cunicoli, corridoi o magazzini. I greci conobbero, accanto ai vari tipi di pseudoarchi, l’archi a conci, del quale, come riferisce Seneca, sarebbe stato inventore Democrito (V secolo a.C.), ma il cui impiego è documentato, su base archeologica, solo dagli ultimi decenni del IV secolo a.C., nelle tombe a camera macedoni (tomba regale di Verghina, circa 336 a.C.), nelle porte di cinte murarie (Eniade in Acarnania), e in coperture di cisterne, corridoi o disimpegni di teatri, stadi e complessi religiosi. Si riscontra anche l’impiego di archi ciechi affiancati, a sostegno di un pendio o di strutture soprastanti (fortificazioni di Perge in Pamphilia). Nell’Italia meridionale greca e sannitica l’uso dell’arco a conci viene introdotto in costruzioni tombali a camera agli inizi del III secolo a.C.; è discussa l’attribuzione alla metà del IV secolo a.C. (contemporanea alle più antiche esperienze macedoni) della cosiddetta Porta Rosa di Velia. Certamente del IV secolo a.C. è la volta della tomba di Charun presso Cerveteri, che attesta la precoce introduzione delle strutture ad arco in Etruria, mentre la Porta dell’Arco di Volterra e le porte di Perugia, per le quali è stata proposta una datazione alta, sono oggi ritenute del II secolo a.C. Scarsa, per l’architettura etrusca, la documentazione relativa alle costruzioni civili, ma è integrata da rappresentazioni scolpite o dipinte. Per l’architettura romana, l’impiego di strutture ad arco è documentato intorno alla metà del III secolo a.C. in porte urbiche (Cosa), ponti e viadotti, ma è nel secolo seguente che le strutture ad arco trovano applicazione generalizzata, estesa alla copertura di ampi ambienti interni (Porticus Aemilia, 193-174 a.C.), grazie alla tecnica dell’opus caementicium, diventando una caratteristica basilare delle maggiori realizzazioni architettoniche romane. Il trapasso dell’arco da elemento tecnico e utilitario a motivo strutturale monumentale si compie con la sua integrazione al sistema trilitico, negli edifici con facciata costituita da una serie di archi su pilastri, ma inquadrati da semicolonne che sorreggono una trabeazione applicata alla parete. Il motivo, già presente nei santuari laziali della fine del II secolo a.C., e, a Roma, nel Tabularium (78 a.C.), diventa la soluzione ricorrente per definire grandi superfici esterne, anche sviluppate su più piani, e trova applicazione negli archi onorari e negli ingressi monumentali. In seguito, nel medio e tardo impero, gli archi sono impostati direttamente sulle colonne (Foro e Via Colonnata di Leptis Magna, peristilio del Palazzo di Diocleziano a Spalato), o con l’interposizione di un elemento di architrave (Santa Costanza a Roma). Una soluzione particolare è rappresentata dall’architrave che si interrompe piegandosi in forma di archi (il cosiddetto frontone siriaco, nel tempio di Adriano a Efeso). I romani hanno usato essenzialmente l’archi semicircolare (a tutto sesto); l’arco ribassato o segmentato, la cui forma è data da un segmento di circonferenza, trova applicazione in casi particolari, come le finestre termali, e negli archi di scarico per i quali è frequente anche la piattabanda. Le culture architettoniche che di Roma raccolgono l’eredità adottano anche varianti e forme diverse: i bizantini fanno largo uso di archi a tutto sesto su piedritti rialzati, impiegati anche dagli arabi insieme all’arco a ferro di cavallo, specialmente diffuso in Spagna e Africa settentrionale; l’arco ellittico e quello ribassato policentrico sono poco usati nell’architettura tardo-antica e medievale, ma troveranno maggiore successo nel Rinascimento e nel Barocco, in particolare nella costruzione di ponti in muratura. Gli archi acuti sono costituiti da due tratti di circonferenza, i cui centri sono posti sul piano della corda, a distanza variabile dall’asse, che ne determina la forma più o meno allungata: archi acuti equilateri, se i centri di curvatura coincidono con i punti d’imposta; compressi se interni alla corda; a lancetta se esterni; lanceolati, quando inoltre si trovino sopra il piano d’imposta. L’impiego degli archi acuti, a parte l’esempio precoce di Qasr-Ibn-Wardan (561-564), è fatto risalire all’architettura islamica del secolo VIII; queste forme si diffondono in Italia e in Europa intorno all’XI secolo, ma l’uso sistematico che ne fanno i costruttori gotici, a partire dagli inizi del XII secolo, è il frutto di osservazioni autonome sui vantaggi pratici nella realizzazione delle volte a crociera e sul contenimento della spinta, offerti da questo tipo di arco, come testimonierebbero le formule pratiche e i tradizionali procedimenti grafici di dimensionamento dei piedritti, noti attraverso la letteratura posteriore, ma probabilmente in uso già in epoca medievale. Forme particolari sono l’arco falcato (conci di altezza crescente dall’imposta alla chiave), o l’arco senese (con intradosso a tutto sesto ed estradosso acuto). Altri tipi di archi policentrici sono stati impiegati per motivi formali e di gusto: l’arco polilobato, con intradosso costituito da una serie di archetti (lobi) i cui centri di curvatura sono posti ad altezze diverse, indica in genere influenze arabe; l’arco trilobato, presente in una grande varietà di forme, è ampiamente usato, nel tipo con archetto centrale acuto, per finestre, porte e decorazioni del gotico rayonnant; l’arco inflesso (in inglese ogee arch), a quattro centri e profilo concavo-convesso-concavo, di origine orientale e introdotto in Occidente attraverso Venezia, si afferma in Inghilterra con il decorated e si diffonde con il tardogotico, anche nella variante a profilo convesso-concavo-convesso (arco a fiamma, in francese arc en doucine), variante usata soprattutto nei trafori delle finestre. L’arco inflesso si arricchisce poi con l’immissione, tra i principali tratti curvilinei, di altri lobi e segmenti rettilinei, che ne complicano il profilo. Un’ulteriore variante è l’arco Tudor, con archivolto costituito da due archetti concavi raccordati da due tratti rettilinei (o da due tratti di circonferenza con raggio di curvatura molto ampio), uniti a cuspide, tipico dell’architettura inglese dal XV al XVIII secolo. L’architettura moderna, dopo il periodo storicista ed eclettico, con l’introduzione delle nuove tecniche costruttive e dei nuovi materiali, ha abbandonato nell’architettura corrente l’uso dell’arco, il cui impiego rimane limitato alle grandi strutture (ponti, viadotti ecc.), e ad alcune opere di particolare significato simbolico e monumentale. Bibliografia Bettini S., L’architettura di San Marco, Padova, 1946; s.v. Arco, in Enciclopedia dell’arte antica, Secondo Supplemento 1971, Roma, 1994, pp. 344-354. Photogallery
Categoria Arco (costruzioni) Definizione-Etimologia Dal latino arcus. Il termine indica una struttura portante ad asse curvilineo, i cui estremi poggiano generalmente su piedritti o colonne. Generalità A differenza dello schema trilitico, in una struttura ad arco l’elemento orizzontale, arcuato, non è semplicemente inflesso ma è anche compresso e i due piedritti che lo sostengono ricevono non solo carichi verticali ma anche una spinta orizzontale tendente a ribaltarli verso l’esterno. L’arco costituisce un compromesso tra elemento orizzontale e verticale, deviando progressivamente i carichi verticali sui piedritti (o spalle) fino a condurli a terra. Per evitare il possibile ribaltamento dovuto alle spinte orizzontali che sono chiamati ad assorbire, i piedritti devono essere costituiti da abbondanti masse murarie di contrasto, in modo che spinta e peso, composti vettorialmente, si mantengano entro il terzo medio della sezione in muratura. Creato per funzionare a compressione, l’arco ha rappresentato per secoli la migliore soluzione costruttiva per il materiale muratura e l’evoluzione dei diversi stili architettonici si può vedere come la storia delle soluzioni costruttive per contenere le spinte orizzontali sui piedritti e mantenere le sezioni arcuate puramente compresse. Parti costitutive delle strutture ad arco Nella realtà costruttiva, l’arco è costituito da più elementi, detti conci (concio), che si trasmettono le forze per attrito o contatto reciproco, per interposizione di materiale legante, per introduzione di perni e staffe o per incastro. Si definisce asse dell’arco il luogo dei baricentri delle sezioni costituenti, e la sua forma, insieme ad altri parametri (corda, freccia e spessore), è un elemento essenziale per definire l’effettiva capacità dell’arco di sopportare i carichi. L’arco si sviluppa a partire dalla sua base (imposta), che è la superficie d’appoggio sui piedritti, lungo il suo asse, fino alla chiusura in chiave (o serraglio) attraverso un concio (chiave) geometricamente coincidente con il vertice, che viene posto in opera per ultimo garantendone la stabilità (centina, concio). La struttura ad arco è compresa tra la superficie di intradosso (interna, detta anche imbotto o sottarco) e quella di estradosso (esterna). La distanza tra i punti estremi delle sue linee d’imposta si dice corda (luce, ampiezza, portata o sottesa), ed è un importante parametro per la stabilità dell’arco, insieme alla freccia (monta o saetta) che ne definisce l’altezza. Si definisce piano d’imposta dell’arco il piano contenente le sue linee d’imposta o anche la superficie (piana o inclinata) della faccia superiore del concio da cui l’arco si sviluppa (peduccio o pulvino). Lo spessore di un arco, non necessariamente costante, è definito come la distanza tra intradosso ed estradosso, misurata sull’archivolto; tale misura può variare tra imposta e chiave (ad esempio nell’arco senese). La superficie ideale compresa tra linea d’intradosso e linea d’imposta viene detta specchio dell’arco e qualora sia cieca o murata si definisce lunetta, mentre si chiama sopraporta o soprafinestra nei casi in cui sia integrata negli infissi che chiudono l’apertura. Tipologie Considerando l’andamento della curva d’intradosso in relazione al proprio sesto (o profilo) definito come rapporto tra freccia e metà della luce, gli archi si distinguono in: archi a tutto sesto (pieno sesto o pieno centro, tondi) in cui la freccia è pari a metà della luce e la curva d’intradosso è una semicirconferenza; archi a sesto rialzato (eccedente o oltrepassato), la cui freccia è superiore a metà corda (archi a ferro di cavallo, archi a sesto acuto lanceolati, archi polilobati, archi con curva d’intradosso composita inflessi o carenati); archi a sesto ribassato (scemi, tondi ribassati, a monta depressa, schiacciati o diminuiti), il cui intradosso è un tratto di semicirconferenza con il centro a quota inferiore alle imposte e con freccia inferiore a metà corda (archi rovesci). Gli archi policentrici, composti, asimmetrici, derivano la loro forma dalla posizione dei centri di curvatura che possono essere lungo la linea d’imposta (arco acuto), sopra di essa (arco lanceolato), in bande opposte rispetto all’intradosso (arco inflesso o carenato) o ad altezze diverse (arco polilobato). Per ciascuno di questi archi diversi sono i metodi di tracciamento e di costruzione. A seconda delle caratteristiche e della posizione delle linee d’imposta gli archi possono essere retti (linee d’imposta normali alle fronti) o obliqui (non perpendicolari alle fronti). Gli archi rampanti hanno linee d’imposta parallele ai fronti ma inclinate rispetto all’orizzontale mentre negli archi zoppi (o a collo d’oca) queste sono parallele tra loro e orizzontali ma a quote diverse. A seconda che abbiano una sola o diverse curvature, tra loro raccordate, gli archi si distinguono in continui e discontinui. Funzionamento statico dell’arco La parte di muratura appoggiata all’estradosso, in corrispondenza dei fianchi (o reni) dell’arco, è detta rinfianco e ha funzione di rinforzo. Procedendo verso gli appoggi, generalmente aumenta la sezione resistente dell’arco, in considerazione dell’aumento del carico applicato passando dalla chiave alle reni. La linea delle successive risultanti, detta anche curva delle pressioni, caratterizza ogni arco e la sua determinazione è necessaria per la verifica della sua stabilità. Tale linea visualizza il modo in cui le forze si trasmettono tra i singoli conci e la sua curvatura dipende dalla configurazione dei carichi gravanti sull’arco (pesi propri e sovraccarichi) oltre che dalla geometria dell’arco stesso. La coincidenza tra asse dell’arco e curva delle pressioni garantisce che le forze scambiate tra i conci costituenti siano semplicemente di compressione in ogni sezione; maggiore è la distanza tra le due curve e più la risultante dei carichi in ogni sezione risulterà inclinata rispetto alla perpendicolare condotta per il piano della sezione stessa, e lontana dal suo baricentro, determinando l’insorgere di un momento flettente. Per la soluzione statica dell’arco il metodo più usato è quello grafico, che consiste nella costruzione del poligono funicolare del sistema di vettori rappresentanti i pesi dei singoli conci, imponendo il suo passaggio in chiave e alle reni per le cerniere individuate sperimentalmente da Mery (poste tra i 30° e 45° a partire dall’orizzontale, a seconda della geometria). Analiticamente, la struttura, iperstatica, si risolve determinandone le reazioni vincolari sui piedritti, imponendo l’equilibrio esterno, e quindi esaminando le sollecitazioni sulle singole sezioni (momento flettente, sforzo di taglio e sforzo normale) dopo aver introdotto alcune ipotesi semplificative che fanno capo alla simmetria della struttura e alla posizione delle cerniere (arco a tre cerniere, staticamente determinato, la cui soluzione viene definita attraverso il tracciamento di un poligono funicolare che connette i carichi applicati e passa per tre cerniere). Il comportamento dell’arco tradizionale (compresso, in muratura) deve essere distinto da quello costituito da una fune flessibile alla quale sono applicati i carichi (teso, come nel caso della catenaria o dei cavi nei ponti sospesi) la cui soluzione statica è relativamente recente (i maggiori sviluppi sono dovuti agli studi di L.F. Menabrea e di A. Castigliano). Bibliografia Photogallery Benvenuto E., La scienza delle costruzioni nel suo sviluppo storico, Firenze, 1981; Choisy F.A., L’art de bâtir chez les romains, Parigi, 1873; Giuffré A., La meccanica nell’architettura, Roma, 1986.
Categoria Biomasse Per biomasse si intende la parte biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui provenienti dall’agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali) e dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani. Esistono tre tipi di processi che consentono la conversione energetica della biomassa: processi termochimici: trasformazioni chimiche che avvengono in presenza di elevati valori di temperatura. Appartengono a questa categoria la combustione, la gassificazione e la pirolisi; processi biochimici: trasformazioni chimiche attivate dall’azione di enzimi, funghi e microrganismi che si formano in presenza di opportune condizioni ambientali (temperatura e pressione). Processi tipici sono la fermentazione alcolica, la digestione aerobica ed anaerobica per la produzione di biogas o bioetanolo; processi chimico-fisici: estrazione di oli vegetali ed eventuale successiva reazione chimica di transesterificazione per la produzione di biodiesel. Sono numerose le situazioni nel campo dell’edilizia dove l’installazione di una caldaia alimentata a biomassa (cippato di legna, pellet) al posto di una alimentata a combustibili fossili (metano, gasolio, GPL) può risultare vantaggiosa sia dal punto di vista ambientale che economico, grazie anche a forme diverse di incentivo. La realizzazione di un impianto di questo tipo richiede oltre alla realizzazione della centrale termica, la predisposizione di un locale adibito a deposito di biomassa, che dovrà essere rifornito periodicamente.
Categoria Espressionismo Definizione – Etimologia Con il termine espressionismo si usa definire il movimento architettonico sviluppatosi in Europa nei primi decenni del ventesimo secolo in seguito all’analogo movimento della arti visive e dello spettacolo rivolte a privilegiare, esasperandolo, il dato emotivo della realtà rispetto a quello percepibile oggettivamente. Tale tendenza si è manifestata in molte forme d’arte, come la pittura, la danza, la letteratura, l’architettura, il cinema, il teatro, la musica. Generalità L’espressionismo è una tendenza dell’avanguardia artistica sviluppatasi tra il 1905 e il 1925 in Germania; proponeva una rivoluzione del linguaggio che contrapponeva all’oggettività dell’impressionismo la soggettività dell’espressionismo. L’impressionismo rappresentava una sorta di moto dall’esterno all’interno, cioè era la realtà oggettiva a imprimersi nella coscienza soggettiva dell’artista; l’espressionismo costituisce il moto inverso, dall’interno all’esterno: dall’anima dell’artista direttamente nella realtà Einfühlung, senza mediazioni e con un forte impegno sociale. Organo ufficiale dell’espressionismo fu la rivista «Der Sturm», fondata e diretta da Herwarth Walden e pubblicata dal 1910 al 1932. Derivazione, processo formativo e filoni tipologici L’Art Nouveau e le architetture di Antoni Gaudì e di Henry Van de Velde (in particolare il teatro del Werkbund a Colonia del 1914) possono considerarsi precedenti, insieme con le opere della scuola di Amsterdam – ad es. i quartieri di De Klerk e lo Scheepvarthuis di van der Meij 1911-13 nella stessa città – nonché con la goticizzante chiesa Grundtvig a Copenaghen (1913-26) di Peder Klint. Max Berg con la Jahrhunterthalle di Bleslavia (Wroklaw) 1910-13 può considerarsi espressionista perché travalica la funzione per esprimere forti suggestioni simboliche. Nel 1914 Bruno Taut con Walter Gropius, e il poeta Paul Scheerbart fonda il gruppo Die gläserne Kette (la catena di vetro) e costruisce il padiglione di vetro all’esposizione del Werkbund di Colonia, prototipo di una nuova architettura per un uomo nuovo; durante la guerra schizza utopiche architetture di cristallo lucenti in cima alle vette che pubblica in Alpine Architektur, 1918 e Die Stadtkrone, 1919. Nel 1918 Taut diviene direttore dello Arbeitsrat für Kunst e fonda la rivista «Frühlicht». Nel 1919 organizza con Walter Gropius e con Hermann Finsterlin, autore delle fantastiche forme disegnate esposte nella mostra degli architetti sconosciuti (Ausstellung für unbekannte Architekten). Dal 1921 al 1924 è impegnato come Stadtbaurat a Magdeburgo progettando alloggi popolari oltre a intraprendere iniziative quali la “Magdeburgo colorata”, operazione di rinnovamento urbano che usava la coloritura delle facciate su teorie psicologico-simboliche (Goethe, Steiner, Itten) affidandole ad artisti. Nella Germania economicamente e moralmente distrutta dalla sconfitta del 1918 il Novembergruppe unisce architetti, pittori, letterati e musicisti, ma pochi poterono costruire i loro progetti. Fanno eccezione: Hans Poelzig (Grosses Schauspielhaus a Berlino 1919, distrutta, scenografie per il film Der Golem, progetti per Max Reinhardt e per la sede del Festival di Salisburgo, non realizzata), Erich Mendelsohn (torre Einstein a Potsdam 1920-21, fabbrica di cappelli a Luckenwalde 1921-23) e Hans Scharoun che inizia la sua attività a Breslavia (Wroklaw) . Nel 1920-21 Gropius e Hannes Meyer costruiscono casa Sommerfeld a Berlino in blockbau di legno e a Weimar il Monumento ai Caduti di Marzo. Mies van de Rohe in studio con Hugo Häring progetta grattacieli di vetro 1919-21 e poi il monumento a Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg 1926 in mattoni a vista distrutto dai nazisti, mentre Häring costruisce la fattoria Gut Garkau 1923-25. Insieme creano nel 1923 in gruppo Zehnerring (anello dei dieci) con Otto Bartning, Peter Behrens, Mendelson, Poelzig, Walter Schilbach, Ludwig Hilberseimer, Bruno e Max Taut. Amburgo e Brema ebbero un loro espressionismo con la Chile Haus di Fritz Höger 1922-23 e la Haus Atlantis di Bernhardt Hötger 1931, costruzioni in clinker secondo la tradizione anseatica. Il secondo Goetheanum di Rudolf Steiner a Dornach (Svizzera) del 1923 tutto in cemento armato è un influente esempio di architettura espressionista. In Italia gli ultimi disegni di Antonio Sant’Elia possono definirsi espressionisti negli scorci di monumentali cattedrali alpine e alla fine degli anni venti Luciano Baldessari è influenzato sia dal futurismo che dall’espressionismo tedesco. In USA Hugh Ferris illustra la New York City zooning ordinance del 1916 con effetti espressionistici di grattacieli drammaticamente illuminati che ispirano il film Metropolis di Fritz Lang 1927. Dal 1925 Taut, Mendelsohn, Gropius, van de Rohe e Poelzig, insieme con altri artisti espressionisti si rivolsero alla Neue Sachlichkeit (nuova oggettività), un movimento più concreto e pratico, abbandonando le emozioni e i sogni dell’espressionismo. Molti schizzi e progetti come quelli naturalistici di Finsterlin o dei fratelli Wassilli e Hans Luckardt non si tradussero in edifici, ma Taut nel quartiere Berlin-Britz 1925-31 a ferro di cavallo, Häring, Scharoun, Forbat, Henning, Bartning con Gropius a Siemenstadt 1929-31, Mendelsohn nei suoi grandi magazzini a Berlino, Stoccarda, Breslavia, Chemnitz, Behrens nei quartieri generali della Hoechst AG a Francoforte 1921-25 tutta in mattoni a vista, costruirono una cospicua percentuale dell’architettura moderna degli anni venti in alternativa al razionalismo ortogonale del Bauhaus, trascurata dai disegni storici più diffusi fino alla fine degli anni sessanta. Accezione moderna del termine Nel secondo dopoguerra l’opera di Scharoun, la torre Stuttgart (1954), il ginnasio Geschwister-Scholl (1962) e la famosa sala concerti di Berlino (1956-1963), “l’architettura organica” di Häring hanno indicato un’alternativa all’international style influenzando fortemente architetti contemporanei come Le Corbusier, Eero Saarinen, Luis Barragàn (neo espressionismo) e anche in Italia ad esempio Carlo Mollino e a Firenze Giovanni Michelucci, Leonardo Ricci, Leonardo Savioli e Marco Dezzi Bardeschi. Oggi il decostruttivismo di Zaha Hadid, Coop Himmelblau, Daniel Libeskind, Frank O. Gehry, Santiago Calatrava, Enric Miralles e Benedetta Tagliabue ecc attinge dalle utopie tedesche e sovietiche degli anni venti le forme più audaci e barocche realizzate grazie allo sviluppo tecnologico ma depurate da ogni significato sociale. Bibliografia Borsi F., König G.K., Architettura dell’Espressionismo, Vitale & Ghianda, Genova, Vincent Freal & Cie, Paris 1967; Pehnt W., Expressionist Architecture, Thames and Hudson, London-New York 1973; Platz G., Die Baukunst der neuesten Zeit, Propylaen Verlag Berlin 1927; Taut B., Die neue Wohnung. Die Frau als Schoepferin, Lipsia, 1924 (tr. it. La nuova abitazione: la donna come creatrice, con introduzione di Paolo Portoghesi, Roma 1986); Taut B., Die Stadtkrone, 1919 (tr. it. La corona della città, con saggio introduttivo di Ludovico Quaroni, Milano 1973; Taut B., Alpine Architektur, Hagen, 1918 (tr. it. La via all’architettura alpina – La dissoluzione delle città – La terra una buona abitazione, Faenza 1976); Zevi B. (a cura), Erich Mendelsohn: opera completa: architettura e immagini architettoniche, Testo & immagine, Torino 1997.
Categoria Accessibilità (tecnologia) Definizione ed evoluzione del termine In senso generale, l’accessibilità esprime la capacità di un ambiente di garantire ad ogni persona, a prescindere dall’età, dal genere, dal retroterra culturale e dalle abilità fisiche, sensoriali e cognitive, una vita indipendente. Attiene all’esercizio di diritti inviolabili della persona, quali le libertà di movimento e di autodeterminazione, ed è un indicatore privilegiato del livello di permeabilità e di inclusione sociale di una comunità. In architettura, per accessibilità si intende “l’attitudine di luoghi, prodotti e servizi a essere identificabili, raggiungibili, comprensibili e fruibili autonomamente, in condizioni di comfort e di sicurezza, da parte di chiunque.” La tematica, che riguarda il complesso degli interventi di trasformazione dell’habitat, è regolata nel nostro Paese da un corpo piuttosto consistente di norme tecniche (in particolare: D.M.LL.PP. 236/1989, relativo all’edilizia privata e residenziale pubblica sovvenzionata ed agevolata; D.P.R. 503/1996, relativo a edifici, spazi e servizi pubblici). Il termine ha subíto nel tempo una profonda revisione per effetto, innanzitutto, dell’evoluzione del concetto di disabilità, cui è strettamente legato. Se nel passato la disabilità era, infatti, considerata una condizione della persona, oggi è assunta come il risultato di una complessa interazione tra “persone con menomazioni e barriere comportamentali e ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di eguaglianza con gli altri” (Convenzione ONU sui Diritti delle persone disabili, 2006). Inoltre, se in origine l’accessibilità era associata essenzialmente al soddisfacimento delle esigenze di mobilità delle persone su sedia a ruote, col tempo ha esteso il proprio campo di interesse anche alle esigenze percettive delle persone con minorazioni sensoriali o cognitive (comunicatività ambientale) fino ad essere riferita, oggi, alla generalità delle persone. Tale apertura d’orizzonte ha condotto, gradualmente, al superamento dell’approccio progettuale basato sulle “soluzioni speciali”, cioè sulla realizzazione di ambienti ad accessibilità riservata e di attrezzature dedicate destinate a questo o a quel profilo d’utenza disabile e all’affermazione di specifiche metodologie progettuali (Design for All, Universal Design, Inclusive Design ecc.) che, con varietà di accenti, mirano a conseguire l’idoneità nell’uso di luoghi, prodotti e servizi per il più ampio spettro possibile di popolazione. Parallelamente si è diffusa la consapevolezza che l’accessibilità non può essere più intesa riduttivamente come disciplina tecnico-normativa finalizzata all’eliminazione delle barriere architettoniche ma, prima di tutto, come grande valore collettivo, che informa, trasversalmente, tutte le politiche delle Amministrazioni pubbliche (strategia di mainstreaming), che esige la cooperazione tra tutti coloro che intervengono nei processi di trasformazione degli habitat (politici, personale delle amministrazioni pubbliche, progettisti, costruttori, abitanti ecc.) e che necessita di politiche spazio-temporali coerenti alle diverse scale (da quella di dettaglio a quella territoriale) e guidate da adeguati strumenti di programmazione degli interventi, come peraltro previsto dalla normativa vigente (L. 41/1986 e L. 104/1992). D’altra parte, la letteratura scientifica evidenzia e l’esperienza comune conferma che habitat formalmente ‘a norma’, privi, cioè, delle barriere architettoniche contemplate dalla normativa, non sempre raggiungono un livello di accessibilità soddisfacente. Il divario tra accessibilità legale e accessibilità effettiva dipende dal fatto che, in un ambiente dato, l’assenza di barriere architettoniche è condizione necessaria ma, di solito, non sufficiente per conseguire l’accessibilità. L’accessibilità, infatti, non si ottiene solo mediante l’eliminazione delle barriere architettoniche (o, nei nuovi interventi, nella loro assenza), ma grazie ad un progetto accurato che trae origine dal quadro delle esigenze da soddisfare. La progettazione accessibile, in pratica, non dovrà porsi solo come adeguamento normativo ma, piuttosto, come strategia di qualificazione ambientale. Ad esempio, un parco urbano per dirsi “accessibile” non solo deve essere privo di barriere architettoniche, ma deve prevedere sedute comode anche per le persone anziane, zone d’ombra, servizi igienici per bambini e per adulti, giochi idonei per tutti i bambini, elettroscooter per le persone che si muovono con difficoltà, colonnine SOS per i casi di emergenza ecc. Gradi di accessibilità e strategie di intervento Circa il giudizio di accessibilità di luoghi, prodotti e servizi occorre convenire che esso, in termini rigorosi, non potrà essere definito in senso assoluto ma solo come sintesi dei livelli di soddisfacimento (gradi di accessibilità) correlati ai diversi profili d’utenza considerati. Questo perché ogni profilo d’utenza ha specifiche esigenze e non è raro che uno scenario accessibile per un profilo d’utenza non lo sia, o lo sia solo parzialmente, per un altro. Tale sintesi, d’altra parte, sarà transitoria ed incerta per effetto delle continue trasformazioni che interessano gli habitat umani e per la costante evoluzione che riguarda la disciplina. Analogamente, nei progetti di riqualificazione è difficile che si consegua la piena accessibilità per tutti, ma, più che altro, un innalzamento dei gradi di accessibilità i quali potranno essere valutati mediante l’analisi ponderata di una serie di fattori assunti come riferimento quali la qualità del progetto, la raggiungibilità del manufatto, le risorse economiche disponibili, la qualità gestionale, la capacità di carico del manufatto (ovvero la sua attitudine di sostenere, senza snaturarsi, gli interventi di necessari) ecc. Le strategie di intervento per conseguire l’accessibilità ambientale possono distinguersi in materiali ed immateriali. Le prime attengono ad interventi sulla fisicità dell’ambiente e si esprimono, nella forma più avanzata, mediante progetti sapienti capaci di armonizzare, dal punto di vista funzionale, estetico e simbolico, le diverse esigenze, da acquisire, preferibilmente, mediante il coinvolgimento diretto dei portatori d’interessi. Talvolta la soluzione tecnica specialistica viene celata o elaborata creativamente in modo da ‘allontanarla’ semanticamente dalle ragioni che l’hanno motivata – il superamento delle barriere architettoniche – e dagli utenti che dovrebbero trarne particolare beneficio – le persone disabili – (approccio mimetico). In altre circostanze, il sistema di vincoli posto dal contesto di intervento o specifiche motivazioni conducono il progettista a ricorrere ad ‘addizioni’ – permanenti o transitorie – che integrano il manufatto di parti e/o dispositivi per soddisfare specifiche esigenze (approccio protesico). In tutti i casi è indispensabile che il progetto sia ispirato dalla cultura dell’accessibilità sin dalle fasi istruttorie per scongiurare interventi posticci o disorganici. A livello urbano e territoriale un ruolo essenziale per risolvere i problemi della raggiungibilità di alcuni siti (si pensi ai numerosissimi centri collinari e montuosi del nostro Paese) o della mobilità nelle aree di grandi dimensioni (aeroporti, aree fieristiche, parchi urbani, centri storici, ecc.) (barriere urbanistiche) è svolto dal sistema integrato dei trasporti. Le strategie d’intervento ‘immateriali’ sono basate sull’informazione (es. guide all’uso delle città consultabili via web), e sono finalizzati ad evitare la mobilità non necessaria e a consentire ad ogni persona, in base alle proprie capacità, di scegliere tempi e modalità dell’interazione ambientale. Bibliografia Laurìa A. (a cura), I Piani per l’Accessibilità. Una sfida per promuovere l’autonomia dei cittadini e valorizzare i luoghi dell’abitare, Roma, 2012; Laurìa A. (a cura), Persone “reali” e progettazione dell’ambiente costruito L’accessibilità come risorsa per la qualità ambientale, Rimini, 2003; UNITED NATIONS, Convention on the Right of Persons with Disabilities, 2006. Photogallery
Vescovi, Michele Luigi, Author at www.Wikitecnica.com | www.Wikitecnica.com Cluniacense, architettura Vescovi, Michele Luigi febbraio 8, 2011 Sommario: 1. Definizione - Etimologia - 2. Le strutture: Cluny A, Cluny I, Cluny II - 3. Cluny III - Bibliografia 1. Definizione - Etimologia Architettura riferita al monastero di Cluny (Borgogna) e alle chiese affiliate all'ordine relativo.... Cluniacense, architettura vescovi-michele-luigi www.Wikitecnica.com